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La nuova era: monitoraggio continuo della glicemia

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Diabete, la nuova era: monitoraggio continuo della glicemia (senza pungersi il dito)
I sensori sono preziosissimi, perché possono aiutare a gestire meglio la malattia, aumentando il tempo passato con la glicemia nel range di normalità e riducendo le complicanze.
La quadratura del cerchio
Pungersi il dito con una lancetta, appoggiare la goccia di sangue sulla striscia, leggere il risultato. Più o meno semplificati grazie alla tecnologia dei glucometri, i passaggi per il monitoraggio della glicemia in caso di diabete sono questi. Odiato dai pazienti, che ne farebbero volentieri a meno, il monitoraggio stretto (anche sei, otto volte al giorno in chi ha il diabete di tipo 1) è caldeggiato invece dai medici, perché è ormai assodato che più spesso si misurano gli zuccheri nel sangue, meglio si riescono a tenere sotto controllo. La quadratura del cerchio potrebbe essere l’uso di uno dei vari sensori per il monitoraggio continuo della glicemia: sono stati definiti «una tecnologia che può cambiare il modo di gestire il diabete» dagli autori del primo documento che ha messo nero su bianco come usarli e come interpretarne i valori, diffuso durante l’ultimo congresso dell’American Diabetes Association e approvato dalle Società dei diabetologi statunitensi ed europei.

In tempo reale o «intermittenti»
Perché l’innovazione c’è stata, ma non è banale inserirla nella pratica clinica: anche per questo di recente la Società Italiana di Diabetologia ha redatto un documento di consenso per definire possibilità e limiti di queste tecnologie nel nostro Paese. Innanzitutto però un passo indietro, che cosa si intende con monitoraggio continuo della glicemia? «Si tratta di utilizzare sensori che si applicano sulla pelle con un adesivo e attraverso una micro-cannula dosano il glucosio nel liquido interstiziale del tessuto sottocutaneo (il liquido che si trova fra una cellula e l’altra, ndr)», spiega Francesco Purrello, presidente della Società Italiana di Diabetologia (SID). I sensori possono farlo continuamente, 24 ore al giorno e sette giorni su sette, e i sistemi attualmente disponibili sono due, come specifica Purrello: «Esistono i sensori in tempo reale, che rilevano i valori in continuo e vanno tarati con misurazioni standard una o due volte al giorno; sono la premessa per l’arrivo del pancreas artificiale (perché una micro-pompa che inietti in automatico l’insulina necessaria momento per momento ha bisogno di sapere costantemente il livello di glicemia, ndr) ma tuttora quando la lettura porta a una variazione della dose di insulina viene richiesto un controllo ulteriore con il pungidito. Bisogna ricordare, infatti, che nel liquido interstiziale il glucosio varia con un po’ di ritardo rispetto al sangue. La taratura non serve invece nel caso dei sensori “flash” o intermittenti, che invece sono calibrati dal produttore e dosano la glicemia a richiesta: basta passare il cellulare o un lettore vicino al sensore per attivarlo e leggere il valore».

Non sono adatti a tutti
Con i sensori flash si punge il dito se per esempio la glicemia si modifica rapidamente o se viene indicata la possibilità di un’ipoglicemia. «A differenza della misura classica infatti entrambi i tipi di sensore non danno solo una fotografia della glicemia in quel momento, ma indicano anche una tendenza in atto: a parità di lettura, sanno distinguere se gli zuccheri nel sangue entro breve aumenteranno o scenderanno - interviene Simona Frontoni, direttore dell’Unità di Endocrinologia, Diabetologia e Malattie Metaboliche all’ospedale Fatebenefratelli Isola Tiberina di Roma e coautrice del documento di consenso italiano -. Questo è molto utile per prendere decisioni immediate: se devo guidare e la glicemia è a 80, posso mettermi al volante in tranquillità quando la “freccia di tendenza” indica che il valore salirà ma devo invece mangiare qualcosa se va verso il basso, per evitare un’ipoglicemia». I sensori migliorano la quotidianità dei malati sia per il compenso glicemico, sia per la comodità d’uso, ma non sono adatti a tutti: il documento SID specifica che vanno offerti a chi ha il diabete di tipo 1 e a chi ha il tipo 2 ma si cura anche con insulina più volte al giorno.

I vantaggi
Serve poi educare bene i pazienti candidati a portarlo, perché devono sapere interpretare le informazioni per poi prendere i giusti provvedimenti. I benefici ci sono, come osserva Purrello: «Si riduce di circa il 40 per cento il rischio di ipoglicemia, aumenta il tempo trascorso entro un intervallo di glicemia ottimale, i pazienti sono più soddisfatti. Nelle donne in gravidanza, per esempio, è dimostrato che migliora il controllo glicemico e diminuisce il pericolo di complicazioni per mamma e feto».

Glicemia nella norma
Il tempo passato con una glicemia nella norma o quasi è fondamentale per il benessere e per evitare complicanze, per questo è anche il parametro considerato dagli autori del documento internazionale sul monitoraggio in continuo della glicemia presentato al congresso dell’American Diabetes Association: «Finora per capire il livello di controllo del diabete e la probabilità di complicanze si è usata l’emoglobina glicata, che indica l’andamento della glicemia nell’arco degli ultimi due, tre mesi e per la quale sono definiti valori soglia noti oltre cui il rischio sale. Per il monitoraggio continuo, che consente una visione più precisa delle variazioni glicemiche giornaliere, non c’era finora un obiettivo ben chiaro», scrivono gli autori nel documento, pubblicato su Diabetes Care, che indica per tutte le tipologie di diabetici lo scopo di terapia (vedi grafica), più o meno stringente anche a seconda del rischio. Un diabetico di tipo 1, per esempio, dovrebbe trascorrere oltre il 70 per cento del tempo con valori di glicemia fra 70 e 180 mg/dl; in un paziente con diabete di tipo 2 o in chi è più anziano e fragile ci si può accontentare di non scendere al di sotto del 50 per cento del tempo passato in questo range, ma si è più ‘severi’ sui valori bassi ed è consentito stare al di sotto di 70 (rischiando così l’ipoglicemia) meno dell’1 per cento del tempo.

Il rapporto costo-beneficio
Questi dati aiuteranno a guidare sempre meglio l’uso delle tecnologie basate sui sensori, che, stando a stime SID, crescono al ritmo del 10-15 per cento l’anno e hanno costi non irrisori. «Le risorse vanno razionalizzate e le nuove tecnologie inevitabilmente all’inizio sono più care, ma se diamo i sensori a chi davvero può trarne i maggiori benefici ci sono anche vantaggi economici - osserva Agostino Consoli, presidente eletto SID -. Un episodio di ipoglicemia può costare tremila euro, circa il prezzo di un anno di utilizzo di alcuni sensori. Che però evitano i rischi da ipoglicemia, possono ridurre il consumo di insulina, diminuiscono quello delle strisce reattive (un diabetico in trattamento insulinico intensivo può usarne anche fino a dieci al giorno, ndr)».
Una valutazione attenta del rapporto costo-beneficio è perciò indispensabile: per il diabete si spendono circa 20 miliardi di euro ogni anno e per il 46 per cento sono costi diretti, dovuti per metà dei casi ai ricoveri, e per un quarto ai farmaci per curare le (tante) malattie che si associano spesso al diabete. Solo il 4 per cento è speso per i dispositivi, fra cui i sensori: a oggi vengono rimborsati dalle Regioni, ciascuna però con criteri di prescrivibilità e accesso diversi (in molte ne viene concesso un numero fisso e chi arriva quando sono stati già assegnati resta fuori). «Dovremmo arrivare a una definizione comune delle regole di accesso, tenendo conto di appropriatezza e rapporto costo-beneficio, garantendo un accesso facile e gratuito ai sensori a chi ne può trarre un vantaggio concreto. E solo a loro», conclude Agostino Consoli.

La spesa per la sanità digitale
Il futuro del diabete è digitale anche grazie ai sensori che raccolgono montagne di dati dei pazienti. Preziosissimi, perché possono aiutare a gestire meglio la malattia, aumentando il tempo passato con la glicemia nel range di normalità e riducendo le complicanze. A patto però di saperli gestire, come hanno sottolineato di recente i diabetologi durante il convegno Digitalizzazione e Diabete a Napoli. Da un lato infatti quindici milioni di italiani, medici e pazienti, usano web e computer per coordinare le prenotazioni, raccogliere dati anagrafici o stilare piani terapeutici, dall’altro, però, la spesa per la sanità digitale dell’Italia risulta essere fanalino di coda europeo con 22 euro pro capite, mentre, per esempio, nel Regno Unito si sale a 60 e in Francia a 40.

Strumenti tecnologici
«Il diabete può essere un banco di prova per la sanità digitale perché esistono già tanti strumenti tecnologici di gestione del paziente, non soltanto i sensori ma anche i piani terapeutici informatizzati o le cartelle cliniche digitali», osserva Mariano Agrusta coordinatore del gruppo di studio Psicologia e Diabete dell’Associazione Nazionale Medici Diabetologi. Digitalizzazione peraltro non significa perdere il rapporto con il medico, come spiega l’endocrinologo dell’università di Torino Fabio Broglio: «Anzi, può migliorarlo: lo abbiamo visto in donne con il diabete gestazionale che grazie al monitoraggio dei parametri a distanza si sono sentite più sicure, nonostante la riduzione delle visite. Sapevano che l’allerta ai medici sarebbe stato immediato in caso di problemi e ai controlli c’era più tempo da dedicare ai loro reali bisogni. Con una gestione digitale inoltre il medico può anche avere un quadro clinico chiaro in qualsiasi momento, con una cartella clinica digitale si può ridurre la prescrizione di esami o di farmaci «doppioni» da altri specialisti, risparmiando così sia soldi sia eventi avversi causati da terapie che «cozzano». L’essenziale però è far sì che tutti i dati arrivino sulle piattaforme di gestione clinica senza un intervento diretto del paziente così da coinvolgere anche i più anziani, meno avvezzi ad app e simili», conclude Broglio.

Il sensore impiantabile
I sensori vanno sostituiti ogni 7, 10, 14 giorni al massimo. Esiste però un sensore impiantabile che dura sei mesi, misurando la glicemia in continuo: viene inserito sotto la pelle del braccio con una procedura ambulatoriale, poi per ricevere i dati si applica alla cute un trasmettitore che invia i dati al cellulare e vibra fino a trenta minuti prima in caso di allarme ipo o iperglicemia, così da avvisare anche se non si ha il telefono a portata di mano. Come spiega Paolo Di Bartolo, presidente eletto dell’Associazione Medici Diabetologi, «Oggi abbiamo a disposizione sistemi con caratteristiche diverse per personalizzare il monitoraggio continuo sulla base delle esigenze del singolo paziente. L’impiantabile, in cui la parte visibile può essere rimossa facilmente e senza conseguenze per il sensore, è utile per chi ha bisogno della massima flessibilità ed è compatibile con qualsiasi attività, per esempio lo sport o il mare».
14/12/2019
Tratto da www.corriere.it

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